Il Corpus Domini tra fede, arte e letteratura
Nella Solennità del Corpo e del Sangue di Cristo scopriamo le origini della festa e il motivo per il quale ha stimolato nei secoli la creatività dando origine a molti capolavori
Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Le solennità che seguono la Pasqua sono come petali di un magnifico fiore. Circondano la Risurrezione e la rendono ancora più splendida: l’Ascensione, la Pentecoste, la Santissima Trinità e, infine, il Corpus Domini, che chiude la divina corolla. E la Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, questo il nome esatto, cade nell’ottava di Pentecoste, nel pieno di giugno, mese della luce.
Dal dubbio allo splendore della fede
Le origini del Corpus Domini risalgono alla metà del XIII secolo in Belgio come risposta alle teorie del filosofo francese Berengario di Tours che negava la transustanziazione, ovvero la conversione del pane e del vino nella sostanza del corpo e sangue di Nostro Signore e quindi la sua presenza reale nell’Eucaristia.
In quel tempo, alcuni decenni prima, una mistica belga, la monaca agostiniana Giuliana di Cornillon, ebbe delle visioni.
Prima sognò una luna piena macchiata da un’ombra scura, come se le mancasse qualcosa per renderla perfettamente splendida, poi fu Gesù Cristo stesso che le apparve per spingere la suora a farsi promotrice della festività del Santissimo Corpus Domini e mettere rimedio così alle numerose correnti scettiche, se non oltraggiose, che insinuavano il dubbio. Roberto de Thourotte, vescovo di Liegi, ascoltò la suora e convocò un concilio per istituire la festività nella sua diocesi.
La messa di Bolsena
Nel 1263 a Bolsena avvenne il celebre miracolo eucaristico raccontato con molti particolari dalle cronache del tempo, tra cui quella di Sant’Antonino da Firenze e più tardi di Giovanni Villani.
Durante il suo viaggio lungo la Via Cassia, il sacerdote boemo Pietro da Praga si era fermato presso la chiesa di Santa Cristina a Bolsena. Il suo pellegrinaggio verso Roma era stato proprio un atto devozionale per risolvere i dubbi che lo attanagliavano: non credeva nella presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’Eucaristia.
Mentre diceva messa, al momento dell’elevazione, sangue rosso vivo sgorgò copioso dall’ostia appena consacrata e macchiò il corporale. Papa Urbano IV, che si trovava a Orvieto, proclamò il miracolo.
L’11 agosto del 1264 lo stesso Papa promulgò la bolla Transitus de hoc mundo e la solennità fu estesa a tutta la Chiesa cattolica.
L’opera di Raffaello nelle Stanze Vaticane
Questo è uno dei miracoli più conosciuti e celebrati nella storia. Molti artisti raffigurarono quel momento prodigioso e tra tutti Raffaello. Si tratta di un affresco nella Stanza di Eliodoro delle Stanze Vaticane.
Si data al 1515 e vuole ricordare la devozione di Giulio II per l’Eucaristia in un momento di conflitti e nuovi movimenti dottrinali contrari. La scena è divisa in due parti, come una partitura in due atti, tra passato e presente. Fa da discrimine l’altare al centro, coperto da una sontuosa tovaglia ricamata con iscrizioni.
Il momento del miracolo, ovvero ciò che è accaduto, mostra il sacerdote sbalordito e assistito da chierichetti con candele mentre il popolo è agitato dalla sorpresa, sbigottito.
Nella parte opposta, inginocchiato e di profilo, in preghiera, il Papa. Sotto, alcuni cardinali e ancora più in basso giovani e splendidi sediari. Da questo lato tutto è statico, quasi immobile. Mentre il passato è raffigurato nella dinamicità del movimento, mentre sta accadendo, il presente è fermo nella certezza quieta della fede.
Il legame tra Ultima Cena e Corpus Domini
Secondo papa Urbano IV, questa doveva essere una festività gioiosa alla quale doveva partecipare il popolo con inni e canti. Per questo San Tommaso d’Aquino fu incaricato dal Pontefice di comporre l’Ufficio Divino del Corpus Domini, la liturgia delle Ore e il messale.
L’inno eucaristico Pange Lingua, in particolare, dimostra il legame profondo tra il Corpus Domini e l’Ultima Cena del Signore, evidenziato dal sapiente adattamento di Tommaso degli inni del Giovedì Santo – composti da Venanzio Fortunato, vissuto tra VI e VII secolo – alla nuova liturgia.
La promessa pasquale del Giovedì Santo diventa realtà concreta nel Corpus Domini.
Il legame è raffigurato anche in alcune opere d’arte, che mostrano Gesù Cristo mentre dà la comunione agli apostoli inginocchiati. Una delle più mirabili si trova a Urbino, nella Galleria Nazionale delle Marche.
La Comunione degli Apostoli, datata al 1473-1476, è una pala d’altare a olio su tavola, opera di Joos Van Wassenhove, detto Giusto di Gand, pittore fiammingo vissuto tra il 1430 e il 1480. Si tratta di una iconografia che, pur evocando lo schema dell’Ultima Cena, assume una identità chiara e percepibile: Cristo è in piedi, al centro, e non benedice il pane, ma dà l’ostia agli apostoli, che non stanno seduti a tavola ma inginocchiati con le mani giunte intorno a lui. Gli angeli oranti, sospesi sotto la volta della sala, imprimono maggiore solennità e sacralità alla scena.
Un particolare non di poco conto, presente anche in altre opere a uguale soggetto, come nell’opera di Cola dell’Amatrice, è che le figure degli apostoli e di Cristo stanno davanti alla tavola che resta sullo sfondo e non dietro come nell’Ultima Cena, segnando visivamente il limite del tempo e il compimento della Missione di Cristo sulla terra.
La profanazione come antitesi
Torniamo ancora sulla grande pala di Urbino: alla base del dipinto di Gand vi è una predella, opera di Paolo Uccello, Il miracolo dell’ostia profanata, databile ad anni precedenti a quella del pittore fiammingo, tra il 1467 e il 1468.
La predella racconta un avvenimento accaduto a Parigi nel 1290, riferito dallo storico fiorentino Villani, che allude alla polemica viva, a quel tempo, contro gli ebrei.
Le diverse scene scandiscono gli episodi in modo vivace e coloristico, realizzando una vera e propria fiaba, tra il terrifico e l’edificante.
Lo scopo è essenzialmente ammonitore. In particolare, nella terza scena con la riconsacrazione dell’ostia, che era stata trafugata e venduta da una donna a un usuraio e che quindi cotta al fuoco del camino aveva cominciato a sanguinare, si rifà alle celebrazioni del Corpus Domini: una solenne processione in cammino verso l’altare, con il papa, chierici e fedeli. Un episodio che sembra voler essere antitetico al miracolo di Bolsena.
Uno dei segni più forti della solennità del Corpus Domini è la tradizionale processione. Il Santissimo veniva e viene ancora oggi portato tra le strade, sotto un baldacchino. Caratteristiche di molte località in Italia, ma non solo, sono anche le cosiddette infiorate, tappeti fatti di petali di fiori a formare decori e immagini di grande bellezza.
La processione ha un valore profondo e non è solo un’espressione popolare di fede o di usanze folkloristiche. Portare il Santissimo fra le strade e la sua gente serve a rimarcare la presenza viva di Gesù e ricordare le sue parole: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
Anche questo momento solenne della liturgia del Corpus Domini è molto raffigurato nell’arte, dalle miniature agli affreschi e alle tele. Il periodo dove l’iconografia ha riscosso particolare fortuna è l’età barocca per lo sfarzo e la coralità del momento, nel quale i diversi nobili partecipanti volevano essere ben raffigurati in modo da essere riconosciuti e così autocelebrarsi.
Ma è nelle opere moderne che possiamo ravvisare particolari innovazioni e la ricerca di un significato più profondo. Le persone si fanno piccole e si confondono come folla popolare festante o in preghiera.
Silenzio e raccoglimento dei più umili e semplici si ravvisano nell’opera del pittore sardo Giuseppe Biasi, nella seconda metà del XX secolo, che dipinge una processione lontana e una chiesa semplice immersa in un panorama rosato. Simile a questa come sentimenti e clima sono altre opere dello stesso pittore più volte dedicate allo stesso tema.
Gioia popolare nella festa
La processione del Corpus Domini a Chieti è un dipinto straordinario e molto particolare, opera di Francesco Paolo Michetti (1851-1929) che valse un premio all’Esposizione nazionale di Napoli del 1877.
La processione avanza verso di noi spettatori, uscendo dalla chiesa, e non è quindi vista nel suo fluire laterale come di solito accade in questa iconografia.
La grande facciata del sacro edificio sbarra tutto lo spazio come una grande quinta, lasciando al cielo campestre solo uno scorcio laterale.
Il sacerdote con il tabernacolo sta uscendo piccolo tra la folla, sotto il baldacchino a righe dorate. Dall’interno della chiesa si scorge la proiezione all’interno del rosone della facciata, una luce bianca e abbagliante. Come è stato notato da Francesco Netti, pittore napoletano contemporaneo del Michetti, più che di un’immagine sacra è l’affastellamento di particolari e di figure. Persone del popolo con i vestiti regionali, una folla tra fedeli, musici, bambini e ragazzi.
Un giovane sta facendo scoppiare un petardo e spaventa una giovane suora; dietro di lui la banda del paese prende a suonare tromboni e un grande tamburo. Una madre stringe al petto i suoi due figli piccoli. Altri bambini sono vestiti di fiori e ancora fiori sono lanciati e cadono sulla scalinata del sagrato. Un’atmosfera tra sacro e profano, una gioia popolare tra fede cristiana e memorie dionisiache.
Nel 1888, riferendosi alla geniale e rivoluzionaria opera del Michetti, Gabriele D’Annunzio, amico dell’artista e suo conterraneo scrisse: “E il Corpus Domini era per tutti noi, cercatori irrequieti di un’arte nuova, il Verbo dipinto; era, nella nostra chiesa, l’immagine delle immagini”.
Il Corpus Domini nella letteratura
Anche nella letteratura come nella pittura la festa del Corpus Domini ha risvegliato immagini e sentimenti. Basti richiamare alla mente i versi del Carducci, di stampo classico, ma quelli del poeta ermetico Carlo Betocchi sgomentano, colpiscono, incantano.
Sembrano sceneggiare il dipinto di Michetti, ma fanno anche pensare alle chiese sempre più vuote. Il poeta ermetico era animato da fede profonda, da un senso di fratellanza.
C’è sempre speranza per l’uomo, quando tiene a mente che Cristo non ci abbandona mai. In questi versi solo di primo impatto sconsolati e malinconici, irrompe ancora la figura del Salvatore, che dà vita e speranza a ciascuno.
Se anche l’uomo diserta e dimentica, Cristo non ci abbandona mai e lo dimostra infondendo vita e speranza attraverso due tristi zolle di terra che si trasformano e cominciano a respirare di vita.
La messa disertata
In un borgo selvaggio,
in un borgo della montagna,
sotto l’ombre del faggio
una chiesa si lagna;
un’erta strada oscura
porta tra le sue mura.
La campana ha suonato,
non un uomo si vede ancora,
raccolti sul sagrato
s’accapigliano alla mora;
e fanciulli cattivi
lanciano acuti gridi.
In chiesa malinconica
sta il prete con la stola gialla,
una luce inarmonica
di qua e di là sfarfalla;
terribilmente bruna
ogni cosa vi sfuma.
Quella povera donna
che sta sgomenta è inginocchiata
all’altare della Madonna,
e quell’altra disperata:
poveramente disperse
sotto l’ombre universe.
Nel mezzo è il corpo bianco
della chiesa, di tre fanciulle,
il cui cantare stanco
vola alle travi brulle;
il prete non risponde
a quell’anima monde.
Ma Gesù Cristo volle
Due bambini a piè dell’altare,
prese due tristi zolle
le fece respirare;
ed erano due pargoli,
eran nudi com’angioli.
In essi, che baloccano
sopra gli scalini di marmo,
meravigliosi toccano
i raggi d’un bel sole calmo;
vive, nel Corpus Domini,
la Messa senza uomini.
(VATICAN NEWS)